Alessandro Del Piero e Francesco Totti, due nomi che risuonano nell’animo di ogni tifoso di calcio italiano. Questi due grandi campioni hanno recentemente partecipato ad un talk show intitolato “10+10 SKY 20 anni”, insieme a Federico Ferri, svelando aneddoti e riflessioni sulle loro carriere. In questo articolo, vi riportiamo alcuni stralci dei loro interventi negli studi di Sky.
ALESSANDRO DEL PIERO
Le nostre carriere sono state parallele ed hanno avuto molte cose in comune. Con il passare del tempo, più che una rivalità si è creata una complicità. Anche senza parlarci tanto, tra di noi è nato l’affetto per ciò che l’altro stava portando avanti. Ci hanno spesso contrapposto, ma noi ci trovavamo a riderci su, soprattutto grazie a Francesco.
Essere capitano? Non c’è un minuto off, sei “sempre” il capitano, dentro e fuori dal campo. Devi fare scelte che non condividi ma che sai che sono le scelte giuste in quel momento. È una continua ricerca della soluzione dei problemi.
Credo che, quando un calciatore lascia l’attività, se non si prepara prima, non è pronto a iniziare una seconda vita. Si riflette su quello che si è fatto, sugli errori, su come migliorare e poi ci si trova a decidere. È un percorso che può essere di 6 mesi o di 10 anni, ma una volta presa la decisione hai la volontà di essere partecipe in tutto. Non di decidere su tutto, ma una figura come la sua [di Francesco] doveva essere partecipe di tutto. Rappresenta la Roma, ha la responsabilità di sapere tutto, altrimenti non può porsi nella posizione migliore per difendere i colori, per sostenere la decisione del club e di creare squadra. I numeri 10 sembrano essere esterni alla squadra, nelle generazioni passate non dovevano correre, ma solo fare solo assist e gol. Il 10 della nostra generazione, invece, ha dovuto correre come un numero 8 o un 4, dare una mano al resto della squadra ma alla fine metterla all’incrocio e fare gol. Abbiamo imparato dai sacrifici fatti, dagli infortuni che abbiamo subito, dai nostri fallimenti agonistici, dalle sconfitte, dai rigori sbagliati, dalle incazzature. Così anche nel gruppo [dirigenziale] ci deve essere un gioco di squadra, con ruoli che collaborano per lo stesso obiettivo: solo così si vince. Non può fare tutto una persona. Si collabora, per la squadra.
Paolo Maldini ha dimostrato da dirigente di essere un vincente: una delle chiavi del successo del Milan dell’anno scorso è stata sicuramente la sua presenza, lui all’interno di un team. Oggi il calcio non è come quando abbiamo iniziato noi, ha bisogno di molte più persone, di un’organizzazione diversa e quindi bisogna mettere i pezzi al posto giusto. Maldini ha dimostrato di essere un vincente anche da dirigente. Mi spiace molto per Paolo, perché io quando penso al Milan penso a Paolo Maldini
FRANCESCO TOTTI
Io e Alex ci siamo sempre rispettati, con i club e in Nazionale, ed eravamo contenti l’uno dell’altro se facevamo bene. C’è stato rispetto sempre, dentro e fuori dal campo.
Essere capitano significa essere diverso da tutti gli altri, devi aiutare compagni, allenatore, società, devi essere presente nei momenti difficili, essere d’esempio, devi saper portare la fascia e non è facile.
Il mio addio al calcio? Non sei mai pronto a un giorno così, ma c’è un inizio e c’è una fine. Le facce della gente, dai bambini ai grandi che hai visto crescere, ti toccano. Vuol dire che in tutti quegli anni ho fatto sempre ciò che la gente aveva voluto che io facessi. I tifosi mi hanno dato la forza, la spinta per arrivare in fondo. Non sapevo cosa avrei voluto fare, dopo l’addio al calcio. Ora spero di trovare un’altra cosa che mi emoziona e mi fa star bene. Dopo aver fatto il passaggio da calciatore a dirigente, ho capito di essere ingombrante, perché non avevo la possibilità di esternare il mio parere.
Il problema del calcio è che nei club ci devono essere i calciatori, chi capisce di calcio e non – con tutto il rispetto – gli avvocati ed i commercialisti che pensano di saper stare in un club. Se fossi la Juventus, una bandiera, un giocatore, un ragazzo come Alex che ha dato per 20 anni alla Juve, penso sia doveroso che lui sia dentro la società, non solo per lui ma per la società, per la gente, per quello che ha fatto, per la capacità calcistica che ha. Chi più di lui sa come muoversi nello spogliatoio, come scegliere i giocatori per la squadra attuale?
Non è stato semplice lasciare la Roma, ma ci pensavo da mesi. Non avevo credibilità, non ero parte del progetto, facevo la mascotte, facevo il Totti. Non mi bastava. Io pensavo potessi essere una risorsa, forse non ero pronto o forse non mi facevano stare al centro del tavolo. Ma quando c’era un problema ero pronto ad intervenire. Avrei preferito morire che annunciare l’addio, non avrei mai pensato di poter lasciare la Roma di mia iniziativa, era la mia prima famiglia.